Entrare in una banca con il volto coperto, senza essere fermati, anzi, se mai ci si trovasse senza maschera, con l’invito della guardia armata alla porta a coprirsi subito il viso per essere ammessi, un anno fa sarebbe parsa fantascienza: il mondo alla rovescia.
E sembrano anche leggermente datate le polemiche sulla liceità o meno del coprirsi il volto con veli o mascherature, che fossero religiose o carnevalesche. Anzi quella acredine diffusa, un po’ moralista e leggermente venata di timore che colpiva sia chi per una ragione o per l’altra non mostrava il volto in pubblico in senso letterale o metaforico, quasi fosse un’offesa mortale alla nostra civiltà, sia chi sospendeva il giudizio, si è rapidamente trasformata nel suo opposto.
Appunto: il mondo alla rovescia; è bastata la minaccia, certamente subdola ed impalpabile, di un infinitesimale virus a farci cambiare paradigma su questo aspetto come su tanti altri, una lezione di umiltà per la nostra hybris.
Ed a colpire è la velocità con cui ci si è adeguati alle nuove condizioni, cercando di ricavarvi uno spazio di precaria normalità, che è comunque segno di una certa capacità di adattamento.
In questo lavoro che va ad aggiungersi come un ulteriore capitolo agli altri miei dedicati alle atmosfere della pandemia qui a Roma non ci saranno quindi visi stravolti, situazioni drammatiche (che pure non sono mancate in quest’anno di epidemia), ma facce e fisionomie consuete, anche se parzialmente nascoste, persone, anziché oggetti, che trasmettano ad un tempo il senso dell’adeguamento alle nuove normalità, perfino il divertimento distaccato ed ironico per questo inopinato mascherarsi alla Hannibal Lecter, ed il disagio sottile, sempre presente anche quando è tenuto in disparte, che dalle costrizioni della pandemia, di cui questa mascherata è un simbolo, deriva.