Se stai guardando le mie foto, stai guardando anche un po’ di me.
In quello che scatto c’è sempre qualcosa che mi attira perché mi appartiene, anche se spesso non ne sono pienamente consapevole.
E così posso essere attratta da un paesaggio che mi ricorda qualcosa legato alla mia infanzia, da uno sguardo familiare o malinconico, perché ci rivedo il mio, dal mare calmo o agitato a seconda del mio umore.
Non sono mai stata brava ad esprimere a parole quello che ho dentro.
I miei stati d’animo spesso si intrecciano più che alternarsi.
Ma ho letto una frase di Frida Kahlo che dice: “Murare la propria sofferenza è rischiare di lasciarsi divorare dall’interno”.
Ecco, la fotografia è come una terapia con cui esprimo parti di me, le faccio uscire fuori e le faccio parlare al posto mio, per immagini.
Questa serie di foto parla di ferite e di fiori, o meglio di come le ferite profonde restino addosso con segni indelebili (alla favoletta che il tempo cura tutto, non ci crede più nessuno) e di come a volte, piano piano sboccino.
Ognuno ha le proprie cicatrici più o meno a vista, i più fortunati le vedono a un certo punto, non si sa come, germogliare.
Questo non è un processo indolore, né che si può calendarizzare, il tempo è soggettivo e del tutto personale come il DNA e non è lineare.
A volte le cicatrici si possono riaprire in modo inaspettato, basta un semplice odore e la testa invece che andare avanti torna indietro, annullando gli sforzi fatti, come un cane che si ostina a voler pisciare dove sente l’odore di un altro e bisogna tirare un po’ il guinzaglio per farlo proseguire.
Quando succede questo, le ferite riprendono a sanguinare e distruggono la fioritura.
E tocca ricominciare.