Il centro socioculturale curdo Ararat nasce a Roma nel maggio del 1999, all’interno del complesso in disuso dell’ex mattatoio di Testaccio. Il nome è lo stesso del monte su cui la tradizione narra che si arenò l’arca di Noè alla fine del diluvio universale. Ararat si chiamava anche la prima nave che il 26 dicembre 1996 attracco sulle spiagge della Calabria con a bordo un migliaio di profughi curdi che fuggivano dalle persecuzioni. Nei confronti del popolo curdo è in atto, ormai da decenni, un brutale tentativo di pulizia etnica, dovuto principalmente alla riorganizzazione politica del Medio Oriente avvenuta dopo la fine della prima guerra mondiale: il kurdistan, l’area geografica su cui vivono la maggior parte dei curdi, si trovò suddiviso tra quattro stati, Turchia, Iraq, Iran e Siria. Questo trasformò di fatto più di cinquanta milioni di persone in ospiti indesiderati. Rinnegare le proprie origini è oggi l’unica speranza per questa gente di poter vivere in pace ma molti non accettano questo destino e a causa delle violente rappresaglie che ne conseguono, spesso fuggono verso l’Europa.
Quelli che raggiungono la capitale italiana trovano in Ararat un importante sostegno. Le bellissime tradizioni di questo popolo sopravvivono grazie al centro, che rappresenta, inoltre, un importante riferimento per l’organizzazione e la promozione di manifestazioni politiche e di ogni genere di attività culturali.
Ho messo piede ad Ararat per la prima volta il 16 marzo 2017, un giovedì. Pochi giorni prima mi ero imbattuto casualmente in una manifestazione in campidoglio durante la quale avevo ascoltato la storia del popolo curdo ed ero venuto a conoscenza del pericoloso provvedimento di sgombero che gravava, e grava tutt’oggi, su Ararat. Subito ho pensato che un progetto fotografico avrebbe potuto ancor di più, accendere i riflettori sul centro, che indiscutibilmente rappresenta un vero e proprio tesoro culturale per città. Cosi ho presentato la mia idea alla comunità curda di Roma che dopo averla valutata mi ha invitato a cominciare.
Frequentando Ararat è facile rimanere impressionati dal forte legame che questa gente sente verso il proprio popolo e la sua lotta per la libertà. Sorprende la solennità con la quale vengono celebrate le ricorrenze, la passione per il cay (te nero curdo), per il tavla (backgammon) e l’amore per i piatti tipici della cucina curda. Questi sono tra gli aspetti culturali che emergono di più, insieme naturalmente, all’ enorme affetto per il leader della rivoluzione curda Abdullah Ocalan che trascende l’immaginazione di chiunque di noi. Ma quel che veramente può essere compreso, ascoltando racconti e confidenze, sono le enormi difficoltà della vita di un migrante.
È raro che l’uomo abbandoni spontaneamente la propria terra, perché la vita, lontano da quelle certezze che che di solito contraddistinguono l’ esistenza di ognuno di noi, può essere terribile: è facile immaginare che privati del vicino conforto della famiglia, degli amici più cari e con un futuro quanto mai incerto all’orizzonte la mente spesso vacilli. In questa situazione anche i gesti e le abitudini apparentemente più banali acquisiscono valore, perché nascondono la volontà di continuare a vivere con dignità nonostante tutto.
Mi sono chiesto un infinità di volte se avrei anche io avuto la forza di affrontare un simile destino e spero francamente di non dovermi mai mettere alla prova, anche se i curdi ci insegnano, una volta di più, che l’essere umano, possiede una straordinaria capacità di adattamento ed è in grado, ovunque si trovi, di riorganizzare la sua vita, esibendo sempre con fierezza le proprie origini e tradizioni.