È passato giusto un anno da quando qui a Roma si era iniziato a percepire la gravità della situazione sanitaria: anche se in alcuni paesi del nord Italia già c’erano le zone rosse e da un po’ si parlava di epidemia, qui la vita era proseguita normale, chiudendo gli occhi scaramanticamente, come se ciò che accadeva intorno non ci riguardasse; poi si è fermato tutto, in tutto il paese, e ci siamo dovuti rinchiudere dentro casa come durante le pestilenze dell’antichità.
Personalmente ho vissuto la cosa senza angoscia e con molta curiosità: era una novità, si stavano verificando eventi che percepivo comuni a tutto il mondo, forieri di cambiamenti anche nella loro drammaticità, ma non mi è mai piaciuto drammatizzare o restare prigioniero della retorica che in quest’anno ci ha massacrato a sufficienza, mi è venuto naturale quindi tentare di rendere lo spirito della situazione cercando di utilizzare proprio i limiti posti all’attività di chi, come me, fa fotografia per passione e divertimento.
Questo approccio un po’ minimale che tentava di far parlare le cose e di rendere un clima con i pochi mezzi a disposizione mi è stato particolarmente utile quando sono stato ricoverato un mese in ospedale con il covid ed oltre alle limitazioni dell’isolamento, dato che al momento del prelevamento in ambulanza mi era parso un po’ fuori luogo portare con me una macchina fotografica, e ancora me ne pento, ho dovuto arrangiarmi con un telefono.
Ad un anno da allora, e con la prospettiva imminente di un altra chiusura, ho piacere a tornare al percorso personalmente compiuto durante quel primo periodo, un percorso che avverto come circolare, una metafora di quello che tra chiusure e riaperture, seconde e terze ondate stiamo percorrendo collettivamente.